Davide Cortese è nato nell’ isola di Lipari nel 1974  e vive a Roma. Si è laureato in Lettere moderne all’Università degli Studi di Messina con una tesi sulle “Figure meravigliose nelle credenze popolari eoliane”. Nel 1998 ha pubblicato la sua prima silloge poetica, titolata “ES” (Edizioni EDAS), alla quale sono seguite le sillogi:  “Babylon Guest House” (Libroitaliano, 2004) “Storie del bimbo ciliegia” (Autoproduzione, 2008), “ANUDA” (Aletti, 2011. In seguito ripubblicato in versione e-book da Edizioni LaRecherche.it), “OSSARIO”(Arduino Sacco Editore, 2012), “MADREPERLA”(LietoColle, 2015), “Lettere da Eldorado”(Progetto Cultura, 2016) , “DARKANA” (LietoColle. 2017) e “VIENTU” (Poesie in dialetto eoliano – Edizioni Progetto Cultura, 2018).

I suoi versi sono inclusi in numerose  antologie e riviste cartacee e on-line, tra cui “Poeti e Poesia”, “Poetarum Silva”, “Atelier” e “Inverso”. 

Nel 2004 le poesie di Davide Cortese sono state protagoniste del “Poetry Arcade” di Post Alley, a Seattle. Il poeta eoliano, che nel 2015 ha ricevuto in Campidoglio il Premio Internazionale “Don Luigi Di Liegro” per la Poesia, è anche autore  di due  raccolte  di racconti: “Ikebana degli attimi” (Firenze Libri, 2005), “NUOVA OZ” (Escamontage, 2016), del romanzo “Tattoo Motel” (Lepisma, 2015), della monografia “I MORTICIEDDI – Morti e bambini in un’antica tradizione eoliana” ( Progetto Cultura, 2017), della fiaba “Piccolo re di un’isola di pietra pomice” (Progetto Cultura, 2019) e di un cortometraggio, “Mahara”, che è stato premiato dal Maestro Ettore Scola alla prima edizione di EOLIE IN VIDEO nel 2004 e all’EscaMontage Film Festival nel 2013.

Ha inoltre curato l’antologia-evento “YOUNG POETS * Antologia vivente di giovani poeti”, “GIOIA – Antologia di poeti bambini”(Con fotografie di Dino Ignani. Edizioni Progetto Cultura, 2018) e “VOCE DEL VERBO VIVERE – Autobiografie di tredicenni” ( Escamontage, 2020 ).

3 testi tratti da  “Zebù bambino” (Terra d’ulivi Edizioni. Collana Deserti luoghi, diretta da Giovanni Ibello)

Gioca ai dadi con le bambole
il piccolo Zebù.A una ha dato il nome
della madre di Gesù.
Tatua fiori di melo e serpenti
sul seno di plastica di Maria.
Poi rosicchia quel seno coi denti.
Succhia il latte che finge vi sia.

***

Disegna angeli bianchi
il diavolo bambino
poi li accartoccia tutti
gli dà fuoco con l’accendino.
“Solo angeli neri”, dice
guardando bruciare la luce.

***

Le mani che di giorno hanno picchiato
al buio le giunge in preghiera.
Zebù bambino si finge pio.
A cavalli di vetro soffiato
stringe la fragile criniera.
Gioca ai funerali di dio.

***

Dalla postfazione di Mattia Tarantino:

“Al poeta – lo scomunicato, il balbuziente, l’insonne che veglia – non resterà che dire, allora: «Scoccano insieme/ la mezzanotte e il mezzogiorno». È la visione di Zebù, il bambino con le ali «da angelo randagio» che inganna il tempo a dadi, tempo di cui è ancora impossibile dire «How […] has ticked a heaven round the stars». Zebù, satira – satiro – della parodia, che dà fuoco agli angeli perché anneriscano, che «Tira le trecce a Maria, sua madre» giocando alla storia di Cristo tentando – attentando – la soglia, lo strano nesso, tra volontà e immaginario («Vuole un sole che non sia giallo./ Vuole andar piano ma arrivare presto/ accendere la luce per vedere il buio pesto»), è la figura di una ninna-nanna che buca il paradosso: che lo buca – e, per questo, vi si sottrae – proprio perché proviene da quel punto in cui il conflitto fugge dalla forma che gli abbiamo attribuito e fuggendo – slittando – indica un’altra via, qualcosa come un torrente appena sotto la struttura, annuncia una ricreazione, («Non vuole saperne d’a, e, i, o, u./ Ama la ricreazione/ il piccolo Zebù») l’inizio di un’altra Settimana e di un Giudizio ancora dove il linguaggio finisce di iniziare e non inizia – ristabilendo e dissimulando continuamente questa stessa simmetria – mai a finire. Come nella pseudocabala di Zanzotto («dài baranài tananài tatafài,/ sgorlemo i sissi missiemo i sonai»)  il linguaggio si fa factum loquendi, mero-fatto che si parli. Zebù, angelo del logos – e del logos stravolto, guarda l’Abgrund e ripete più volte e tentennando, come un rito che non riesce a ricordare, Nir-Garten: può parlare a ancora, e ancora può morire. Come coloro che «Dall’abisso tendono mani/ che già non si vedono più».

*Scritti e foto ricevuti direttamente dall’Autore.

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