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Due riflessioni sull’Oggi… di Giovanna Mulas

L’autunno è, forse, la stagione più bella; se per bellezza intendiamo, e ci basta, l’esplosione di colore o l’apparente vitalità che trascina certa dolcezza legata a ritmi di campanile, a tepore sonnolento. E’ quella malattia che, su alcuni uomini giunti al capolinea dell’esistere, assume la parvenza di una maggiore calma di sensi come di fisicità; lì ad anticipare la stoccata definitiva. Una sorta di fiacca inebetita, capelli lucenti come l’incarnato persino…tutto a rassicurare l’egoismo dei sani attorno; ovvero gli scoiattoli voraci e iperattivi che saltano da un ramo all’altro sfogliandolo, archiviandone noci come i ricordi: da serbare in una tana per un dopo di cui non si sa, che non si vedrà, ma che pensandolo si tenta di esorcizzare.

Vedi che sto bene? Sussurra la quercia ai suoi abitanti. Raccogli e cogli ancora, fallo adesso e non lasciarne cadere nemmeno una. Riempi la tana di me.

Stai tranquillo, rassicura il malato, abbiamo superato anche questa…e mi è costata, accidenti a me se mi è costata. Sii sereno: se ne sono uscito io, tutti possono farlo. 

In autunno, in ogni autunno della vita, vige la preparazione al riposo notturno. Credo, voglio credere, che le foglie stesse si sforzino di dare il meglio prima di cadere. Ho amato molto, e molto sono stato amata, forse più di quanto io abbia meritato. Eppure, nonostante l’amore che poteva sembrarmi in grado di vincere guerra e battaglie -tranne le stesse catene dell’utopia che l’avevano legato dall’inizio del suo corso. Cosa è più ironico, nel combattere per amore, del ritrovarsi a difendersi dallo stesso amore?-, nonostante quella pigra e insanabile agonia appartenente a un cuore spezzato, la cui misura ci dirà soltanto in seguito quanto e se, effettivamente, siamo stati implicati…Ecco, è ancora il tempo: solo il tempo, per come lo conosciamo, ricuce e copre. Seppellisce. E’ la malattia giunta al suo apice: finalmente appari diverso, appari migliore. Rassegnato o rabbioso non c’importa; invade comunque la calma accettazione dell’Essere. Non puoi fare altro che lasciarti cadere, come una foglia. Smettere di vogare, sciocco, accanito, contro una corrente che sai inevitabil, più forte. Di norma non si ammette che la corrente non è mai stata contro, e neppure che abbiamo vogato…forse…forse ci si dovrebbe dire che abbiamo seguito e basta ciò che ci è stato presentato dagli eventi, non tutti controllabili e per fortuna. Perché ogni uomo di coscienza dovrebbe rispondere all’ingiustizia o a quanto appare tale verso se stesso o contro terzi; se è vero che il male fatto ad un solo individuo è male fatto a tutta la specie Uomo. Davvero si ha bisogno di credere in un diavolo portatore di male quando il male è nel DNA dell’uomo in quanto tale, nonostante ami pensarsi ‘razionale’?. Quanto davvero si teme noi stessi quindi  l’affrontare i nostri fantasmi, per avvertire la necessità di un diavolo su cui scaricare; del temporaneo e ciclico capro da esorcizzare?. Tra un agito e un reagito agli eventi vige l’abisso di azioni che nessun altro uomo può e deve giudicare. Io non so cosa realmente sia il tempo: spazio, limite o confine, una linea verticale o orizzontale, diramata in dimensioni parallele di scelte fatte da altri noi o incanalata nell’unica porta da varcare per cambiare il futuro, se futuro esiste. Un orologio fermo o in ticchettio costante per non dimenticare che siamo Qui e Ora per lavorare o abbuffarci al McDonald’S, godere e soffrire disinteressati o rompendo le palle al mondo…dite e pensate quello che volete. Si so che se a qualcosa il nostro tempo è servito, sempre, è a rendere le ferite umane più leggere, trascurabili persino; almeno per i più superficiali. Tempo. Se pensassimo a quanti spazi tra noi e il mondo lasciamo perdere nel quotidiano, potremmo decidere di sederci ad oziare per scrutarli, come si guardano i fotogrammi di un film. Sotto diverse prospettive e in ogni dettaglio, all’ombra o con la luce. Goderli davvero e al microscopio per ammettere, finalmente autentici, che durante quell’inquadratura potevamo essere meno stupidi, e rimediare. Forse nella scena appresso si potrebbe pensare meno a noi: aspirare a una vita volta al bene di quanti abbiamo amato e ci circondavano, annullarne sofferenze pure a scapito della ricerca insulsa, sterile di una felicità che non esiste per l’uomo, ché animale dal pensiero critico. Ma anche così saremmo sicuri che il bene fatto per l’altro e con le nostre migliori intenzioni rappresenterebbe il suo, di bene?. Lasciare cadere le foglie, perché splendano.

Giovanna Mulas Pluriaccademica al merito, pluripremiata, tradotta nel mondo. Da sempre a sostegno dei diritti umani tramite cooperazioni internazionali, e contro la violenza sulla donna, Mulas ha all’attivo oltre trenta libri tra narrativa, saggistica, poesia e teatro.

*Testo e foto ricevuti direttamente tramite e-mail da “Diritti Umani Internazionali”; tutti i diritti riservati

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